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 Buone Idee in Testi

Essere  unico in tanti progetti diversi? Ci provo

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Un piccolo racconto

Il cappotto di Omero

Dedicato a una persona speciale incrociata

durante i miei viaggi da pendolare

 

Che freddo aveva fatto quella la notte.  Una della più rigide degli ultimi anni, ma Omero non poteva saperlo. Per lui non esistevano le previsioni del tempo e d’altra parte, non esistevano mille altre cose. La sua era una vita di strada, vagava come un pioppino a primavera fermandosi dove capitava. Ora il suo volto lasciava trasparire la serenità ritrovata. Finalmente. Era seduto sulla panchina preferita in Darsena, intagliata dai “ti amo” delle coppiette. Da lì, si vedeva il Naviglio Pavese che accompagnava in periferia rami e detriti. Quel suo cappotto di lana blu faceva la sua figura al chiarore del mattino, incorniciato dalla barba bianca. Persone distratte ed un paio di cani spelacchiati si muovevano intorno al vecchio clochard. Ma non sembrava accorgersene: restava immobile con gli occhi chiari spalancati, quasi a  fissare attonito lo scorrere regolare e lento delle acque.

 

Di lui si era sempre saputo poco. Anche se molti lo avevano incrociato nella la stazione centrale di Milano. Il suo nome perso negli anni era diventato Omero un po’ per quella voglia di raccontare storie, un po’ perché le sue diottrie facevano sempre più fatica. Lo trovavi mentre camminava trascinando i piedi stanchi nelle scarpe aperte, spingendo il carrello portabagagli dove sistemava cianfrusaglie e pezzi di vita. E lo faceva con sorprendente meticolosità, come se ogni straccio, vestito malridotto e giornale avessero un posto prestabilito. In una busta da supermercato, legata alla maniglia, spuntava una bottiglia di vino che sorseggiava dignitosamente, lontano da occhi indiscreti. La sua figura fuori fuoco si muoveva fra treni sempre più veloci, binari, sale d’aspetto, annunci di ritardo, passeggeri frettolosi e immersi nei pensieri. Se era in vena, partivano i racconti.  Di quando viveva oltreoceano e, da ricco signore, andava alle feste, elegantissimo nel tight di raso, guidando una fiammante Cadillac Sedanette. Sulle spalle un cappotto scuro di lana inglese che faceva brillare gli occhi. Omero parlava con calma, scandendo parola per parola. Non importa se qualcuno lo ascoltava. Quando iniziava a snocciolare quei fatti dell’altro mondo, toglieva gli occhiali dai vetri spessi mostrando gli occhi azzurri che spalancava continuando il flusso ininterrotto di vocali e consonati. Chi lo ascoltava non osava interrompere, affascinato da quel vagabondo così fuori dal comune.

 

A Omero volevano bene tutti, non solo i volontari che aiutavano i senza casa in stazione. C’erano i ferrovieri, gli impiegati e l’edicolante che gli conservava i giornali. Persino qualche affezionato viaggiatore. I poliziotti, soprattutto quando la temperatura non faceva sconti, lo ospitavano nel gabbiotto su una sedia da bar vicino  alla stufa elettrica. E lì prendevano vita altre storie. Omero non chiedeva niente. Erano gli altri a preoccuparsi. Così non gli mancava mai da mangiare,  almeno lì in stazione, un po’ di Bonarda e qualche spicciolo per Camel che annerivano le dita. Ma  guai a parlargli di ricoveri o di ospizi comunali,“quella è roba da vecchi barboni”, sosteneva con un moto d’orgoglio. Lo diceva con quella parlata che tradiva le origini meridionali. II suo italiano era fluido e scorrevole, ognitanto colorito da qualche espressione inglese così da far capire quanto avesse girato veramente il mondo. Lo si doveva lasciar parlare Omero, senza fare troppe domande sulla sua vita, le sue origini e soprattutto l’età che diceva con civetteria di non ricordare. In genere le sue storie si chiudevano sempre allo stesso modo. Prendeva ciò che rimaneva del suo antico paltò e mostrandolo agli altri: "questo sì che ne ha viste di cose, altro che storie. Ora ha qualche acciacco, un po’ come me...” e  toccava i lembi sdruciti “...ma all'occorrenza fa sempre la sua bella figura. Vero?”.  Chi ascoltava annuiva e, allora, Omero sorrideva contento per la conferma alle sue teorie. Poi beveva un sorso che gli serviva a stordire quel passato che voleva allontanare e che aveva raccontato sempre in modo edulcorato.

 

In Africa era stata una stramaledetta guerra. Come stramaledetto era stato partire poco più che adolescente, su una grande nave dal porto di Napoli. Due anni di guerra e sangue, poi quattro di prigionia, iniziata sulle macerie di El Alamein. L’adolescenza dissolta insieme a tanti coetanei, le notti insonni a ingoiare polvere, gli spari nel buio, la paura di non vedere il sole sorgere. Gli amici che morivano uno dopo l’altro. Prima di ogni attacco, guardava la foto di Margherita e  leggeva quella dedica di inchiostro sbiadito con una calligrafia rotonda e un po’ infantile “a Mario, mio futuro sposo".  Stringeva i denti pensando a quella bambola con una cascata di ricci e occhi nerissimi, cercava il suo profumo almeno con la memoria. Sì, il suo nome era Mario, un ragazzo alto, sorridente, forte. Con le mani piene di solchi che raccontavano di ore nel campo di famiglia sotto quel sole. Quelle stesse mani che erano riuscite a sfogliare anche i libri. Il primo a saper usare la penna a casa sua, un grande orgoglio per i suoi vecchi.  Mario scriveva il suo nome, non una croce.

 

Un giorno di ottobre, dopo una di quelle battaglie che avrebbero riempito i libri di storia, erano rimasti vivi in pochi. Lui era uno di questi. Catturato dagli alleati, fu condotto insieme a migliaia di italiani in Inghilterra. Finì in un campo di reclusione nei pressi di Leeds nello Yorkshire dove avrebbe preso confidenza con la lingua inglese.  Sarebbe ritornato a casa dopo quattro interminabili anni, con rivedendo stranito il suo piccolo paese circondato dai castagneti e fatto di aspre abitazioni di pietra. Poi iniziò la festa. E con la festa i balli, stretto a Margherita, ubriacandosi del suo profumo, indossando il vestito buono che ora gli sembrava così largo. Ma non era solo il peso a essere cambiato in Mario.  Dopo 72 mesi 12 giorni quel sorriso si era incrinato: i suoi amici caduti in battaglia, il tempo perduto e anche la malinconia di casa che non l’abbandonava nemmeno ora che a casa c’era davvero. Il giorno del matrimonio, mentre don Carlo benediceva le fedi, lui pregava e chiedeva al cielo di poter coltivare i campi e crescere i figli. E di scordare l’orrore. Niente di più.

 

Ma non andò così. Solo 10 mesi e Mario si sarebbe imbarcato per gli Stati Uniti. La povertà a quei tempi non lasciava troppa scelta. Un'altra partenza, altri addii, altre lacrime. Ancora da Napoli su un grande bastimenti nel cui ventre si mischiavano mille dialetti e un'unica speranza. Non sapeva che quella sarebbe stata l'ultima volta che avrebbe visto Margherita. Lei tentava di sorridergli tra le lacrime, lui si sbracciava per farsi vedere dalla balaustra sul ponte. Nelle mani di entrambi un fazzoletto, l’uno con quello dell’altra. Cinque anni sulle impalcature a costruire grattacieli, sono come combattere cento guerre. La notte nelle grandi camerate da emigrante intrise di stanchezza e qui si rigirava mille volle nel letto prima di prendere sonno. Per vincere la nostalgia una lettera ogni 2 mesi non era che una goccia nell’oceano.  Il fazzoletto di Margherita aveva perso il suo profumo. Gli restava solo la fatica, tanta fatica e tutto quello che guadagnava mandato al paese, risparmiando anche sulle briciole di pane. Ogni giorno con quel fare metodico che avrebbe conservato per tutta la vita, metteva da parte il denaro per imbarcarsi e ritornare a casa, per aquistare il vestito da sposo e magari un cappotto elegante e caldo, uno di quelli che aveva sempre sognato, che davano un'aria da persona importante. Non immaginava Mario quando sgobbava fra travi d'acciaio e blocchi di cemento che scherzo crudele gli avrebbe riservato il destino. Non lo sapeva d’estate quando asciugava il sudore che gli imperlava il viso, non lo sapeva d'inverno col gelo che gli spaccava le ossa.

 

Dopo 5 anni, un’altra nave, un viaggio a ritroso, col quel suo bel cappotto ed il vestito nuovo a righe. Aveva scritto che sarebbe arrivato per Natale, chissà che festa gli avrebbero organizzato anche stravolta. Ma trovò poco e niente: solo l’abbraccio commosso di papà e mamma imbiancati dagli anni e soprattutto un’amarissima verità. Non aveva letto nelle sempre più rade risposte di Margherita quella verità nascosta. Non poteva immaginare che solo un mese prima del suo ritorno, sarebbe scappata via seguendo un commerciante di tessuti di cui si era innamorata. Portando via con sé, su una rumorosa Lancia Appia, il denaro ricevuto e tutte le illusioni di una vita. In paese sapevano e ora lo scrutavano di nascosto, avvolto nel cappotto nuovo, con un sentimento di pietà mista a scherno. Fu in quel preciso momento che Mario incominciò a trasformarsi lentamente, inesorabilmente in Omero. Prese a camminare senza meta per strade e viuzze, a parlare con i muri, a rivolgersi al vento. Non volle sapere più niente di niente…e di nessuno. Il suo dolore era più grande della distanza percorsa nei suoi viaggi, insopportabile più degli sforzi sostenuti per lavorare sedici ore al giorno sospeso per aria. Un sorso di vino tracannato con foga, poi un altro e un altro ancora e la pietà degli altri incominciò ad avere la meglio sullo scherno. Sul suo carrello bagagli, ora c’era quello stesso cappotto ridotto a un cencio, ma sistemato con cura. Ogni giorno ripassava la stoffa vissuta, con una spazzola di legno. Sì, anche di Mario ormai erano rimarsolo che brandelli. Di tanto in tanto il vecchio della stazione, ricurvo e con la lunga barba bianca, vedeva una bambola con gli occhi neri e i lunghi capelli che gli correva incontro, sembrava proprio lei: ”Margherita, brava sei tornata!”. E si faceva spazio dentro un’emozione strana. Poi queste sensazioni svanivano, lasciandolo malinconico, confuso. Era quello l'unico fantasma del passato, ma in quanto fantasma era evanescente e non gli faceva del male.

 

Ormai ci voleva ben altro per ferirlo. Nemmeno qualche ragazzino che di tanto in tanto lo prendeva in giro e gli tirava sassi. Nemmeno la consapevolezza che il suo passo arrancava e che il carrello diventava sempre più pesante. Eppure qualcuno sarebbe riuscito a farlo piangere come non gli capitava da cinquant‘anni. Un altro ospite di Milano Centrale, forse geloso delle attenzioni che molti riservavano al vecchio Omero, gettò nel cuore della notte un po’ d’alcol sul cappotto. Un cerino e in pochi secondi una fiammata trasformò quello che restava del cappotto in cenere. Le urla del vecchio barbone risuonarono atrocemente in tutta la stazione. Tutti attorno a lui, ma nessuno fu in grado di calmarlo. Qualcuno disse che era stato fortunato a non fare la fine dei suoi stracci. Lui però continuò a disperarsi fino alla mattina seguente. Poi non parlò più per giorni, chiudendosi in un mutismo che era grido di dolore. Però Omero non sapeva che era entrato nel cuore della gente. Tre settimane dopo sarebbe arrivato il Natale e fu organizzata una grande colletta. Come in un film di Frank Capra ecco un altro cappotto nuovo, elegantissimo, tutto per lui. Un gran bel regalo, Omero. Lo stupore nell'aprire il grande pacco col nastro argentato fu pari alla gioia di vedere quella meraviglia di lana imbottita, la fodera in stile scozzese, sentirne la morbidezza al tatto. E poi un paio di scarpe nuove e un vestito di velluto grigio che gli andava a pennello.  Un'infinità di grazie segnarono quel Natale e il sorriso fece di nuovo capolino sul viso segnato dagli anni e dalla vita.

 

Quella del 24 dicembre fu una Vigilia memorabile. Seduto insieme alla svariata umanità della Stazione, nella grande tavolata della Caritas al centro della sala d'aspetto, era un orgoglioso e impettito. Mostrava il suo indumento nuovo, ridendo senza freni fra un brindisi e un altro. Gli sembrava di essere in una di quelle feste che la sua fantasia dipingeva tanto bene. C’era voluto poco per dimenticare quel crudele falò che aveva cancellato i poveri averi di stoffa. Così riprese a raccontare di quando metteva il cappotto sulle spalle e andava a godersi la vita. Quando tutto finì, di notte, coricato su una branda si mise a fissare il rosso vivo della stufa elettrica nel gabbiotto della polizia. Pensò che l’indomani, una volta tanto,  poteva non risistemare le sue mercanzie. Insomma sarebbe stato il caso di fare un giro col suo cappotto nuovo. Il mattino seguente il nostro Omero incominciò a camminare come da tempo non capitava, ma soprattutto lo fece al di fuori della stazione. Proprio il giorno di Natale vide Milano brillare di luci e stelle comete su grandi abeti, passò davanti a negozi ricchi di ogni ben di dio, seguì con lo sguardo auto così diverse dalla sua Cadillac e ammirò ragazze variopinte dai tacchi altissimi. Gli sembrava che tutti sorridessero ammirati per l’eleganza, per il suo bel paltò. Poi all'imbrunire, dopo un lungo cammino giunse di fronte al Naviglio, scese piano, piano le scalette per sedersi sulla sua panchina preferita. Non aveva voglia di tornare in stazione. Guardò l'acqua che camminava tra gli argini e  le luci dei lampioni riflessi. La temperatura era gelida, ma lui non sentiva freddo. Anzi quella notte fu speciale perché dopo tanto tempo riprovò il calore della serenità e la sensazione di essere  amato. Qualcosa che gli era mancato per più di 50 anni. Ma si sentiva anche stanco, molto stanco. Prima di addormentarsi, salutò con un sorriso e un cenno della mano quella bambola dagli occhi neri e i capelli ricci che ancora una volta era venuta a trovarlo. Poi Omero si addormentò per sempre, riconciliandosi finalmente con Mario.